Nell’ambito delle relazioni internazionali sono diversi i casi in cui ambiguità linguistiche, traduzioni errate o volutamente vaghe di trattati hanno prodotto gravi conseguenze.
Abbiamo visto come il Trattato di Uccialli del 1889 sia diventato famoso per il conflitto prima diplomatico e poi militare innescato dalla mancata corrispondenza in italiano e in amarico di un articolo dell’accordo, che aveva così un significato diverso a seconda della lingua. La vicenda potrebbe sembrare un caso unico nel mondo della diplomazione, ma in realtà ci sono stati altri casi in cui ambiguità linguistiche, traduzioni errate o volutamente vaghe hanno avuto conseguenze, quasi sempre nefaste, nelle relazioni internazionali. In un trattato, tutte le parole hanno un valore fondamentale e differenze culturali e linguistiche possono cambiare il significato di un termine, di una frase e di un’intera intesa.
La vicenda del Trattato di Waitangi, firmato nel 1840 in Nuova Zelanda tra i rappresentanti della Corona britannica e circa 500 capi Māori, ricorda molto quella dell’accordo italo-abissino. Per gli inglesi, obiettivo dell’accordo era ottenere un riconoscimento della loro autorità sulla Nuova Zelanda per regolamentare l’immigrazione britannica e contrastare eventuali interessi in quella regione da parte di altre potenze coloniali; i Māori cercavano invece protezione contro gli abusi degli europei già presenti.
Già con premesse così difformi, le possibilità di incorrere in equivoci era molto forte.
Il trattato fu redatto in due lingue, inglese e māori. La versione māori, curata da missionari britannici, non rappresentava tuttavia un’esatta traduzione di quella inglese e i due testi divergevano spesso notevolmente. In quella inglese i Māori cedono sovranità piena e intera (“The Chiefs of the Confederation of the United Tribes of New Zealand… cede to Her Majesty the Queen of England absolutely and without reservation all the rights and powers of sovereignty”), mentre in quella māori si parla solo di “kawanatanga”, termine che si può rendere in “governo”, promettendo che i capi conserveranno il “tino rangatiratanga”, ossia la piena sovranità e autorità sulle loro terre. Nella mentalità Māori, “kawanatanga” non significava affatto “cedere la sovranità”, ma permettere agli inglesi di gestire i propri affari, senza togliere ai capi locali il loro tradizionale potere. In pratica, i Māori pensavano di concedere agli inglesi solo il diritto di governare i loro sudditi europei, non certo di governare i capi e i popoli indigeni stessi. In più, il termine “tino rangatiratanga” è molto forte: i Māori interpretarono che continuavano a mantenere la piena sovranità sui loro beni e terre e perciò, ai loro occhi, nessuna reale sovranità era stata trasferita agli inglesi.
Questa confusione, o più banalmente la mancata corrispondenza linguistica tra le due versioni, ha diverse possibili cause: dall’impreparazione linguistica e giuridica degli autori del Trattato alla scelta intenzionale da parte dei britannici di far sottoscrivere un testo che, se reso più chiaro, forse non sarebbe mai stato firmato fino all’indubbia difficoltà di fissare in un testo condiviso concetti a cui i contraenti attribuivano significati e desideri assai diversi.
Le conseguenze di queste ambiguità si evidenziarono subito: i britannici agirono come se avessero acquisito la piena sovranità, mentre i Māori si resero conto di aver perso molto più potere di quanto credessero e tutto questo portò a decenni di conflitti armati e a una lunga serie di espropriazioni di terre indigene.
Al termine di un lungo periodo di rivendicazioni legali, nel 1975 il Parlamento neozelandese istituì il “Waitangi Tribunal”, una commissione d’inchiesta permanente, composta da giudici, esperti di diritto, storici e rappresentanti Māori, incaricata di esaminare e giudicare le rivendicazioni dei Māori contro la Corona britannica (oggi lo Stato neozelandese), in merito a violazioni del Trattato di Waitangi. Anche se il Waitangi Tribunal non assegna direttamente risarcimenti economici, il suo lavoro ha avuto un grande impatto economico sulle comunità Māori, che dal 1975 a oggi hanno ricevuto dal governo neozelandese circa 4,6 miliardi di dollari neozelandesi (2,4 miliardi di euro) come risarcimento per le violazioni del Trattato del 1840.
Nel processo di riconciliazione si inserisce anche il fatto che la lingua Māori, che ancora negli anni Settanta era vietata o scoraggiata nelle scuole ed era parlata da una minoranza anziana, nel 1987 viene riconosciuta come lingua ufficiale della Nuova Zelanda insieme all’inglese. Ancora oggi, l’espressione “Tino rangatiratanga” è una parola-chiave del movimento di rivendicazione dei diritti Māori.
C’è voluto oltre un secolo di lotte prima violente poi nelle aule dei tribunali prima che i Māori potessero far sentire la loro voce. Una voce resa celebre in tutto il mondo dalla haka eseguita dagli All Blacks, una delle squadre più prestigiose del rugby mondiale, prima di tutte le loro partite. Si tratta di una danza tradizionale profondamente radicata nella cultura Māori e, sebbene non sia una conseguenza diretta del Trattato di Waitangi del 1840, nel tempo è diventata un potente simbolo della loro identità e dei loro diritti, spesso richiamando i principi sanciti dal trattato.